ROMA – Parma addio. Il giorno della fine arriva al termine della sua stagione più travagliata in 102 anni di storia. Nessuno è riuscito a salvarlo, e che la missione fosse impossibile s’era capito già dalla sentenza fallimentare, pronunciata il 19 marzo e in quei giorni attesa quasi come una liberazione – un paradosso, uno dei tanti di questa vicenda – per divincolare il club dalle mani di Giampietro Manenti, solo l’ultimo dei personaggi che hanno portato la squadra alla tomba. Il destino, a pensarci ora, era già scritto in quei primi numeri spaventosi, provvisori ma già giganteschi: 218 milioni di debiti, 74 solo quelli sportivi, di cui 63 verso i calciatori.
Per novanta giorni, i curatori Anedda e Guiotto, coadiuvati da Albertini come consulente tecnico, hanno provato ad abbassare questa montagna. Sono arrivati a 22,6, in parte ci sono riusciti con le transazioni e le rinunce di tesserati, in parte hanno invece deciso di non riconoscere come “sportivi” quelli che erano semplici trucchi contabili, operazioni insensate sul piano calcistico che si spiegano solo con la necessità di dare ossigeno al bilancio, mentre le casse continuavano a restare vuote. La cernita dei curatori è stata omologata dal giudice Rogato. Dunque: gli organi tecnici e un tribunale hanno distinto le operazioni calcistiche vere da quelle palesemente finte, hanno deciso di non riconoscere certi debiti come “sportivi”. Ma per il sistema calcio tutte queste operazioni erano e sono perfettamente regolari. E il Parma, nonostante il campanello d’allarme della licenza Uefa negata per il ritardo nel pagamento dell’Irpef su alcuni incentivi all’esodo (strumento di cui aveva abusato) ha potuto partecipare a un altro campionato e fare il mercato, cambiare due volte proprietà e cinque presidenti, passare dalla cordata albanese che faceva capo a Taçi all’improbabile Manenti, uno che, secondo l’inchiesta nella quale è stato arrestato, cercava di scaricare sull’unico Pos del club, quello della biglietteria, carte di credito clonate.
La parentesi di Manenti, la più folkloristica ma la meno significativa nel processo causale che ha portato il club alla morte, è significativa: lui aveva già provato a prendere il Parma ai tempi di Bondi e Baraldi, non sembrò minimamente credibile, allora. Al secondo tentativo, è riuscito a prendere una squadra di A per un euro. Senza pagare neppure quell’euro.  

Tutti sapevano, da più di un anno: tre relazioni della Covisoc dopo le ispezioni nel 2014 (17 aprile, 25 settembre, 18 dicembre) hanno sottolineato la tensione finanziaria, i ritardi nel saldare gli stipendi, la necessità di un attento monitoraggio, la fiducia riposta nel mercato per evitare interventi necessari sul capitale sociale, il particolare ricorso agli incentivi all’esodo per abbattere il monte ingaggi. Il sistema si è mosso solo quando, saltata anche la scadenza degli stipendi di febbraio, il Parma ha minacciato di non finire il campionato e ha scioperato per due partite.
Cinque aste sono andate deserte, e le due cordate ancora in corsa, quella di Piazza e quella di Corrado, si sono tirate indietro davanti alle incognite: il rischio elevato di contenziosi con club esteri, giocatori e procuratori, ma anche la paura di ereditare i contratti futuri con i calciatori, 99 più 15 comproprietà, un monte ingaggi non sostenibile per una nuova società in B. Per iscrivere nel torneo cadetto un nuovo Parma con l’eredità sportiva di quello fallito, poteva non bastare quest’esborso spaventoso, solo in parte coperto dal paracadute della Lega (circa 12 milioni) e dai diritti tv. Non resta che la Serie D, adesso.

Lascia un commento